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La caccia nella letteratura

Aldo Barbina

A Riva del Garda è stato assegnato allo scrittore udinese Aldo Barbina, socio del Circolo Friulano Cacciatori, il primo premio, ex aequo, del concorso letterario biennale indetto dalla Federazione Italiana della Caccia ed intitolato allo scomparso presidente nazionale del sodalizio venatorio, Giacomo Rosini.
Il premio era riservato a racconti di caccia in ambiente alpino, scritti in italiano o in tedesco.
Alla cerimonia di premiazione, nel Palazzo dei Congressi, hanno partecipato il presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, il Presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Luis Durnvalder, nonché il Presidente dell'Unione Nazionale Cacciatori Zona Alpi, Rino Masera, che è socio onorario del Circolo Friulano Cacciatori sin dalla sua rifondazione.
Presidente della giuria era nientemeno che Mario Rigoni Stern.

Al nostro socio, Aldo Barbina, le più vive congratulazioni da parte del Presidente del CFC e dall'intero Consiglio direttivo, nonché dalla Commissione cultura e dalla Scuola di Caccia "Erasmo di Valvason".

Non è per lui il primo riconoscimento. Nel 2001, ha conseguito il primo premio assoluto con: 

Sul confine 

(Racconto vincitore all'11° concorso per racconti di caccia in occasione del Giugno del Cacciatore 2001)

 

Si fermò Grega Tischler, al buio, ottanta metri di qua del confine fra Slovenia ed Austria. Spazzò con la mano la neve che aveva ricoperto il sedile della piccola posta che si era costruito. In silenzio caricò il fucile e si coprì con il mantello. Sapeva che da sotto, in Austria, il conte iniziava la battuta. 

Un grande cervo di dieci anni. I guardiacaccia l'avevano seguito per giorni e giorni. Il cervo aveva lì, quasi sul crinale tra i due stati, il suo harem. Ne conoscevano ormai il bramito, la voce potente con cui comunicava che nessun altro maschio sarebbe stato tollerato nel suo territorio. L'avevano cercato all'alba e all'ultima luce. Il bramito risuonava fra i faggi e gli abeti, ma il grande maschio non compariva, sempre attento al rumore e all'odore dell'uomo. Buoni maschi, fusoni, femmine, vitelli in abbondanza. Ma il vecchio signore no. 

Il conte aveva passato cinque albe e cinque sere sull'altana del prato Weissenfeld, dove le impronte si trovavano freschissime la mattina, e dove le mele e le patate erano state mangiate nella notte. Aveva convocato il migliore imitatore di bramito su corno di vacca. Il re rispondeva al corno dal folto, ma non usciva. Venisse dentro a sfidarlo quel giovane importuno. 

Il conte decise per la battuta. Lui sull'ultima altana, alla chiusura della valle, in silenzioso aspetto. Da sotto con il lento passo dei battitori e l'uggiolio di cinque bassotti, tutta la tribù dei cervi doveva salire, infilarsi nella strettoia, comparire nel piccolo slargo finale, dove il tiro era sicuro. Aspettare in silenzio il grande maschio. 

Di qua del confine Grega aspettava. Sicuramente il re dei cervi sarebbe caduto al tiro del conte, ma un altro buon maschio austriaco sarebbe arrivato a tiro del suo fucile sloveno. Silenzio ed attesa. Un freddo intenso con gelo e neve anticipati. Ma alla fine di settembre a millesettecento metri non è una novità. Grega era tranquillo. Un buon maschio lo prendo. 

Un'alba grigia cominciava appena ad aprire il profilo delle montagne. Ancora troppo presto, non c'era luce per sparare. Un sorso di slivovica, si aggiustò il mantello sulle spalle. Controllò che il fucile fosse carico, tolta la sicura, pronto lo schneller. Sfiorare appena, al momento, il grilletto. 

Saliva da sotto, molto lontano, l'uggiolare dei bassotti. Nevica ora, fitto, il bosco si vede appena, la montagna è scomparsa, ma il piccolo prato davanti a lui è visibile. Il fruscio della neve che cade è sottile ed immenso. Sul prato un cippo di pietra segna il confine fra Austria e Slovenia. Lui è in Slovenia. 

I bassotti continuano la loro cerca, nel buio della valle. Hanno individuato le tracce dei cervi. Grega, con il fucile imbracciato vede passare due rapide volpi, un tasso silenzioso, una cerva, due vitelli spaventati. Il re è ancora nel bosco. La neve si fa più insistente. Bene, cosi gli animali sono più lenti. Non c'è freddo quando si aspetta un bel cervo. Continuano a sfilare femmine e vitelli. Il conte non ha sparato. 

Davanti a Grega allibito, a ottanta metri, vicino al cippo di confine, ma già in Slovenia appare nel silenzio il grande cervo. Ha aggirato lo sbarramento ed è passato al di sopra della linea dove lo aspettava il conte. Assesta il fucile. Non vuole sparare al cuore. Il cervo potrebbe con le ultime forze tornare in Austria. Mira con attenzione alla base del collo - non sbagliare Grega! - 

Il cervo si inginocchia, crolla. Enorme. Arrivano i cani, abbaiano, leccano la grande bestia convinti sia la loro preda. Grega si scuote di dosso la neve, va a sedersi di fianco del cervo. Lo guarda con orgoglio smisurato. L'ho preso. Il grande cervo del conte. 

Il conte, con i guardiacaccia ed i battitori sono entrati in Slovenia. Foglie rugginose di faggi cadono a terra per il peso della neve. 

- Complimenti - dice il conte, scuotendo la neve dal cappello, poi aggiunge - Quanto?- 

Per che cosa? risponde Grega nella difficile traduzione tedesco-slovena. 

- Per il cervo. 

- Nulla. Lo tengo io.
L'organizzazione del conte prevede un tavolo con affettati, pane, burro, vino, birra, Schnaps, tutto scaricato da un fuoristrada in un avvicendarsi di uomini. 

Grega offre dalla borraccia la sua slivovica di famiglia. Nevica sui piccoli bicchieri dello Scbnaps, nevica sulle corna enormi e brune, diciotto punte e due grandi corone, nevica sul pelo incrostato di fango, sulla striscia di sangue che ancora esce vivido dalla ferita alla base del collo, nevica sul pelo caldo dei bassotti affamati. 

Lo Jägermeister in divisa con macchina fotografica, riprende Grega alle spalle del trofeo. Poi chiede se è possibile che anche il conte, solo per far vedere agli amici, ma certo dice Grega. Il conte potrà dunque in Austria mostrare che il cervo è suo, ma io l'ho preso io ce l'ho, pensa felice Grega. 

Il conte ringrazia. Sorride - 15.000 marchi tedeschi. 

Grega calcola quanto valgono 15.000 marchi tradotti in talleri sloveni. Pensa che Jolanda, a casa, non dovrà mai sapere di questa pazzia. Il grande cervo, probabilmente medaglia d'oro, il cervo bellissimo è suo. Un sogno. 

Si possono spendere 15.000 marchi per un sogno? 

- No. Grazie signor conte. No. - e alza il bicchiere di slivovica dentro cui continua a cadere la neve 

- Senza offesa. E' mio. Weidmannsheil!

 

l'attuale premiato:

Sul Grintavec

 

Si comincia con un piccolo scricchiolio. Qualcosa non va bene. L'avvertimento per Adelio fu una retromarcia verso il garage in cui da trentacinque anni parcheggiava: una strisciata sul parafango destro. Perchè? Poi un vago senso di incertezza nell'affrontare la scala del condominio. Con attenzione chè non lo notassero i vicini, decise di salire con passo spedito i tredici scalini. Sì ce la faceva ma sbandava a destra, non di molto ma sbandava. Doveva appoggiarsi alla parete. Era assieme osservatore attento e vittima. Sapeva benissimo che sbandava.

Dieci giorni dopo il disturbo era scomparso. Non aveva fatto riparare il parafango, spesa inutile se non si capiva la causa del malessere.

Era agosto. Telefonò agli amici di Jezersko. Vengo per un camoscio. Voglio, pensava, tornare in montagna, andare a caccia. Un piccolo scricchiolio da dimenticare. Il nostro corpo assorbe e ripara tante botte. In montagna i problemi sembrano meno pesanti, si possono almeno allontanare, l'aveva provato tante volte nei momenti difficili.

Paura? No. A settantacinque anni un uomo deve darsi una ragione: ho vissuto, ho avuto la mia piccola razione di gioia e quella grande del dolore. Ma è il destino dell'uomo. Ci si deve convincere che questa lotta molto amara e poco dolce si deve concludere. Come si dice in Friuli di alc si scugne pur murì (1). Però non sono pronto. E poi sto bene, lo sbandamento è passato. Oh si, vivrò ancora a lungo, pensa ridendo.

Veliko lo aspetta, con Andrej, il figlio. L'aria è fresca, l'acqua del Kokra scende tumultuosa e limpida dalla montagna attorno alla pensione Medved. Un profumo intenso di bosco, di prati appena falciati, di fieno che si asciuga al sole.

"Dove andiamo?" chiede con l'aiuto di Marjetka la proprietaria che parla triestino, capisce bene l'italiano ed è slovena.

E' il posto noto, l'enorme anfiteatro del Grintavec, alcuni chilometri di pareti dolomitiche esposte a nord con ancora i nevai in quota e sotto le grandi distese di ghiaie. Lì i camosci vivono tra rocce, mugheti, piccoli prati, ghiaioni appena coperti da una peluria verde. Si sale, Veliko davanti, con passo lentissimo e silenzioso. Poi viene lui, un vago senso di capogiro, e dietro Andrej, che vede i camosci a chilometri di distanza. Si cammina piano col minimo rumore, fermandosi ogni pochi minuti ad esplorare col binocolo.

Andrej gli batte sulla spalla e gli indica in alto, dove la ghiaia finisce e la parete strapiomba. Sono due. A quella distanza, saranno due chilometri, non è possibile stabilirne sesso ed età, appena due macchie contro il chiarore della roccia. Sono al vertice di un cono di ghiaie, non è possibile avvicinarli, a parte la fatica di salire lassù, per lui insopportabile. Vedrebbero subito i tre uomini allo scoperto, un fischio e via. Adelio ha il respiro pesante, è bagnato di sudore, e si accorge che di nuovo tende a sbandare a destra. Deve appoggiarsi al bastone da caccia con forza per compensare la deviazione. Si ferma. Veliko si volta e lo guarda. Con un debole sorriso Adelio gli fa capire che vuole tirare fiato. Si siedono all'ombra di un maggiociondolo. I camosci sono lassù, non allarmati per la distanza. No, cerca di spiegare a gesti. Non ha senso tentare di arrivare a tiro.

La conca, un delta di sassi bianchi e roventi nel sole del pomeriggio, macchiate di mughi e di salici nani, ribolle nella luce. Fra poco, un'ora forse, arriverà l'aria fredda della sera. Veliko con la camicia inzuppata di sudore estrae dallo zaino una bottiglia d'acqua. Se la passano da amici, a lunghi sorsi. Solo lontano, al di sotto di loro, l'acqua affiora e la si sente gorgogliare verso valle e il Kokra. Molto più in alto una cascata risuona fra le rocce e diffonde una sensazione di frescura, ma l'acqua scompare aooena arriva alla base della parete.

Si rialza, sta a lui stabilire il passo. Veliko indica un avvallamento a sinistra, dove c'è bosco e frane e ghiaioni. Con una mano segna che là ci sono camosci.

Si cammina lentamente nell'estenuante intrico caldissimo di un mugheto. Sopra, la grandiosa mole del Grintavec comincia a prendere i colori rosei della sera. Avanzano adagio per non far scricchiolare i sassi. Davanti una quinta di larici e betulle che fa da filtro. Di là, più in alto, dovrebbero esserci i camosci. Sono tre, spiega Veliko, mostrando le dita. Li ha visti due giorni fa.

E daccapo lui si accorge che sbanda. Non può utilizzare molto il bastone per non smuovere le pietre. Ma perchè continua questo fastidio? Piano, un passo alla volta. Il vento leggero, provato con la fiamma dell'accendisigari, è a favore, scende verso di loro. I camosci non li possono vedere, non li possono fiutare. Bisogna solo non fare rumore. Un passo, lievissimo, un altro passo in questo profumo di resina, con a terrai fiori, la gialla scarpetta della madonna, il rosa del garofanino alpino, il rosso della silene e il profumo di vaniglia della nigritella. Camminano con estrema attenzione. Quasi ci sono. Ma una piccola turbolenza rovescia la direzione del vento. Non serve a nulla restare immobili, il loro odore sale ai camosci. Un fischio acuto, uno scroscio di pietre, prima violento, poi sempre più lontano, in alto, sotto le rocce che chiudono la valle. Li vedono appena, in corsa, scomparire tra i larici e i salici. Sosta avvilita.

Ancora acqua dalla bottiglia di Veliko. Sono intrisi di sudore, ma almeno, adesso, il sole cala e ci sarà fresco. Adelio si distende sul prato ispido a respirare. Davanti la parete del Grintavec sta prendendo un colore rosso vivo. C'è un grande senso di pace a guardare questi enormi massi ad accucciarsi fra l'erba, una protezione quasi materna. La montagna immutabile che ti accoglie e ti abbraccia. Chiude gli occhi. Sa che sta sbandando a destra, anche se è fermo, ma è felice. Quanto ancora? Ma per oggi è molto: i mughi, i fiori, i camosci troppo svegli, la compagnia di Veliko e Andrej. Bello sarebbe addormentarsi qui.

Veliko ha raccolto le scarpette della madonna e la nigritella per Marietka. E' vedova. Un pensiero gentile.

Andrej gli batte una mano sulla spalla.

"Gams"(2) dice indicando avanti dall'altra parte dell'anfiteatro del Grintavec, una macchia grigioscura al vertice di una parete quasi verticale.

Veliko guarda Adelio. Non riescono a spiegarsi a parole ma la domanda è abbastanza semplice. Te la senti di arrivare fin là prima del buio?

Di alc - ricorda sorridendo - si scugne pur murì. Dice di si, solo che stavolta non c'è tempo per camminare in silenzio. C'è più di un chilometro di ghiaie e mughi, da attraversare veloci per arrivare a tiro, sempre che il camoscio non  cambi idea ed invece di restare là come un dio a dominare la valle, non si acquatti o si sposti di qualche metro. Il caldo è diminuito, viene sera e l'aria fredda delle cime scivola a valle. Sbandamento a destra. Sudore. Ci arriverò. Ogni tanto una fermata a riprendere fiato con Veliko e Andrej che osservano preoccupati la luce che cala. Non c'è tempo.

Arrivano. Sfinito si butta finalmente a terra a respirare. E' un prato con pochi larici e maggiociondoli. Attorno piccoli mughi e bassi cuscini di driade.

Andrej a pancia in su osserva con il binocolo il camoscio duecento metri più in alto, a trecento metri di distanza e glielo indica.

Sì, pensa, ma io non conosco le correzioni di tiro per angoli così pronunciati. E poi sbando a destra. Veliko gli mostra la parete del Grintavec, su cui adesso il colore rosso intenso del tramonto si è mutato in viola. Fra poco sarà buio. Bisogna decidere se sparare o no.

Ma se io, domani, fra un mese, non potrò più essere qui, allora anche un tiro arrischiato è ammesso?

La luce diminuisce. Il camoscio è lassù, sulla cengia, immobile, sicuro nella sua posizione dominante, nessuno potrà salire da sotto a disturbarlo.

"You must fire" dice Andrej che conosce un pò di inglese.

Deve sparare. Allora si alza, poggia il fucile alla forcella di un maggiociondolo, allarga le gambe per garantirsi maggior appoggio e guarda il camoscio nel cannocchiale. Sei lassù e questo è forse l'ultimo tiro che faccio. Stai fermo per piacere. So che non è corretto, ma ho il mio problema di sbandamento a destra. Ragazzo la vita ha grossi problemi. A ognuno i suoi. Un vento leggero che scende dall'alto muove appena il maggiociondolo. Una piccola oscillazione, i trecento metri, il problema dell'angolazione, più il problema della deviazione a destra, sono troppe varianti.

Quasi notte. Veliko a gesti dice spara, perchè dopo non spari più. Gli hanno insegnato, e lui poi quando ha istruito i giovani cacciatori ha sempre spiegato che non si tenta il tiro.

Ma è quasi notte e questa è l'ultima occasione? Violare la regola?

Si appoggia meglio all'albero, mira al camoscio ricordando che deve puntare basso perchè il colpo diretto all'alto va corretto verso il basso - le complicate regole balistiche. Trattiene il fiato. Il camoscio è lassù di fianco, lo misura alla base del torace, lo stecher attivato, il dito sfiora il grilletto.

La fucilata rimbomba a lungo tra le montagne.

Il camoscio che ha segnato il colpo con un improvviso irrigidimento, adesso scompare. Caduto sul ripiano dove si trovava, ferito, fuggito?

Ormai è notte. Nessuno potrà stasera verificare. Dal prato si avviano verso il fondovalle. Si accorge allora di quanto è stanco e, daccapo, di quanto sbanda a destra.

Nella pensione, ormai è notte, si discute del tiro con un gran piatto di affettato e con le scarpette della madonna e la nigritella a rinvenire in una bottiglia di un quarto di litro. Secondo Veliko il camoscio è lassù, morto subito dopo il tiro. Non lo si è visto balzare via integro o ferito. Domani mattina alle sei si va a cercarlo.

Anche se sbando a destra, pensa Adelio, questa è un'alba di splendore. Il profumo dell'erba, il canto forte dei tordi, quello dolce e sottile dei ciuffolotti, i caprioli che sono ancora al pascolo, le femmine con i piccoli, i maschi appena ai margini del bosco, la brezza che piega i prati a ondate, come un mare verde, il fresco della rugiada che attraverso gli stivali raggiunge i piedi, una volpe indaffarata che sta cercando topi o cavallette, il bastione del Grintavec grigiorosa, con le chiazze bianche dei nevai.

Alla base della parete Veliko cerca una via per salire. Andrej lo segue, con a fianco Dikka la loro annoveriana da traccia. Adelio si è disteso sulla rada erba e i salici nani, lo zaino sotto la testa ad osservare con il binocolo. Io, pensa, non ci arriverei mai. Speriamo sia lassù, non può essere fuggito, l'avremmo visto. In quella luce così morbida e fresca ricorda, ma perchè? quando da ragazzo diceva le preghiere del mattino. Ma non dice una preghiera, è solo un'invocazione. Dio salvami, non voglio ancora, è troppo presto, non sono pronto. Veliko comincia lentamente a salire, quasi in arrampicata libera, parla col figlio, la cagna uggiola, non può avanzare. Andrej e Dikka tornano lentamente alla base. Il ragazzo deve, a tratti, prendere Dikka sulle spalle per farla scendere. Un capriolo abbaia nel bosco, spaventato dalla voce e dai rumori, una famiglia di ciuffolotti passa sopra di loro, i piccoli che seguono a fatica, sono i loro primi voli, i genitori che scendono verso una macchia di abeti.

Veliko sale, cercando con pazienza appoggi e piccole macchie di mughi aggrappati alla roccia. Si ferma, riprende fiato, lo vedono, distesi sul prato, mentre asciuga il sudore con la mano, la cagna lo guarda e uggiola, vorrebbe accompagnarlo. Un'ora occorre a Veliko per raggiungere la cengia, salutare con la mano e scomparire. Se il camoscio è lì Veliko dovrebbe ricomparire subito ed annunciare con un grido di averlo trovato. Passano i minuti, il sole ormai ha scavalcato la cresta del Grintavec e illumina le rocce più alte, scendendo lentamente verso i mugheti e i ghiaioni. Una brezza profumata di terra, di funghi, di resina riempie la conca dove aspettano. Veliko appare a sinistra, sta cercando attorno, la cagna guarda in alto e mugola, uno scoiattolo attraversa il prato, salta su un larice, di lì su un abete, squittendo e brontolando allarmato. Nulla. Andato. Se è stato colpito e si è nascosto più in alto nessuno lo troverà più, la cagna là non può arrivare.

Adelio ha chiuso gli occhi, respira abbattuto, cercando almeno di imprimere nel ricordo gli odori della montagna. Poi si tornerà a valle.

Veliko appare sull'orlo della cengia e agita le braccia, gridando un oh-i! oh-i! che risuona a lungo tra le rocce.

Lui abbraccia Andrej che sorride felice e la cagna che lecca tutti due. Andrej gli dice Weidmansheil! e gli dà la mano.

Veliko, per scendere, dopo aver sventrato l'animale, ha trovato una via più lunga ma più facile, attraverso mughi e piccole betulle. Arriva giù completamente bagnato di sudore, eppure fa ancora fresco, con il viso e le braccia sanguinanti per i graffi e i capelli e la camicia pieni di aghi di pino e frammenti di foglie secche. Ha il camoscio sulle spalle, nel rucksack (3), che apre. Appoggia a terra il camoscio, un bel maschio. Il colpo l'ha preso sul torace, la palla è uscita dal dorso.

"A very good shot, a dobro gams (4)", si complimenta Andrej, traducendo come può le parole del padre. E si abbracciano mentre la cagna lecca il sangue delle ferite. Il camoscio era a pochi metri della cengia, si era rifugiato a morire sotto un mugo fitto. Veliko l'aveva visto solo quando, rassegnato, aveva deciso che era perduto e stava per tornare giù.

Un ramo di mugo nella bocca, un rametto intinto nella ferita e offerto da Veliko sul cappello, con la stretta di mano e il Weidmansheil!

Adesso sono tutti distesi a terra. Veliko beve con gioia il whisky della fiaschetta che si dividono, è bello brindare quando tutto finisce bene.

Andrej beve la coca-cola che Adelio ha portato per lui nello zaino. Dikka si è acquattata vicino al camoscio, a guardia: nessuno lo tocchi, è nostro. Con la testa sullo zaino Adelio guarda le nere corna al suo fianco, la lontana alta parete da dove ieri sera il camoscio lo osservava, e poi attorno tutto il grandioso abbraccio di rocce, ghiaioni e nevai. C'è un piccolo volo di lucherini dalla voce lieve che attraversa il cielo davanti a loro. E' felice.

Ma quando si rialza per tornare in paese deve appoggiarsi al bastone, è come se a destra ci fosse un vuoto che deve compensare.

Ho questi nuovi ricordi, pensa, mentre cammina con fatica, anche se in discesa e nel fresco del bosco e guarda la testa del camoscio sulle spalle di Veliko.

Andrej adesso canticchia, non occorre più essere silenziosi. Arrivano alla prima sorgente. Veliko lava il coltello e le mani ancora incrostati di sangue, poi tutti e tre si lavano il viso, nel profumo di muschio e di felci, prima di bere l'acqua freschissima, nelle mani a coppa.

Alla pensione tutti vogliono osservare il camoscio e complimentarsi, bravo cacciatore gli dicono stringendogli la mano e bevono birra, vino, caffè, pelinkovac, è la tassa non scritta per un'uscita fortunata.

 

"Quando ha notato questo disturbo?" gli chiede il neurochirurgo, dopo i primi esami.

"Quindici, no, venti giorni fa."

"Costante?"

"No. E' cominciato, poi è sparito, poi è tornato. Mi dica tutto per favore. La mia vita è mia. Vivo da solo."

"Facciamo così. Lei si ricovera domani pomeriggio, martedì. Devo farle altri esami. La opero giovedì. E' ancora piccolo. Penso di poterlo asportare e che tutto si risolva bene. Ma ci vorrà comunque del tempo. Se deve sistemare delle cose lo faccia. Questo non la deve spaventare, chi si sente in ordine con i propri doveri è più sereno ed affronta meglio una prova difficile. Lei mi ha chiesto chiarezza. Sì, sarà una prova difficile, ma credo che la supererà del tutto."

La notte dopo aver terminato di sistemare le cose, come ha detto il primario, non riesce ad addormentarsi. Riflette. Ha avvertito la figlia che vive a Genova, arrivo domani papà, no ragazza, prendila con calma, sono in buone mani. Ha fatto, testamento lasciando a lei ogni suo bene, meno una somma che permetta alla vecchia tata di continuare a vivere in una casa privata per anziani. Ha avvertito l'ufficio dove presta consulenze, che dovrà essere ricoverato. Domani mattina farà una chiacchierata con don Osvaldo, antico compagno di studi, se sarà in grado di dargli qualche conforto.

Il sonno non viene. Va in cucina. Sul tavolo c'è il trofeo del camoscio. Beve un whisky con ghiaccio anche se è certo che il chirurgo lo vieterebbe con rigore. Chiude gli occhi. Rivive ancora il Grintavec nell'intenso rosso del tramonto, lo sparo, il camoscio recuperato, la festa nella pensione, gli odori del bosco, lo scoiattolo, i colori dell'alba, il profumo della nigritella.

Ma quante volte l'ha già fatto in questi giorni, piccola àncora di fronte alla paura? I ricordi troppo usati si stingono rapidamente, come fotografie vecchie esposte alla luce. Tocca con la mano, ad occhi chiusi, le nere corna uncinate.

E' stanco, non ricorda più nulla. Si addormenta sul tavolo con le dita strette sull'inutile trofeo.

 

(1) di qualcosa si deve pur morire.

(2) camoscio.

(3) zaino che permette anche il trasporto, all'esterno, di caprioli o camosci.

(4) Un gran bel tiro, un bel camoscio