verdi

La Federazione dei Verdi del Friuli Venezia Giulia

 

ci invia per conoscenza e non abbiamo alcuna difficoltà a pubblicare, riconoscere, annotare in chiusura pur accludendo il testo originale a cui si riferisce l'intervento.

 

Ho letto con attenzione, curiosità e molte perplessità la lunghissima sequela di interventi di personaggi politici e cacciatori sulla riforma della legislazione regionale in materia venatoria.

Lo ho fatto fino ad oggi in perfetto  silenzio, perché ritenevo non elegante intervenire nel dibattito essendo io uno dei componenti del tavolo tecnico incaricato di lavorare sulla riforma. Nemmeno l’intervento su “Il Messaggero Veneto” da parte di  Viezzi, presidente della Federcaccia di Udine - e anch’esso componente del tavolo in nome e per conto di Rifondazione Comunista - mi aveva convinto a rompere il voto di silenzio.

Credo però che ora, dopo la nota pubblicata da “Il Messaggero Veneto” e firmata da GIANNI ARCAN e ELVIO DI LUCENTE, qualche parola di chiarimento “laico” vada fatta, per non indurre i lettori fuori strada.

L’intervento pubblicato trasuda forti nostalgie rispetto al sistema giuridico in vigore nel Friuli Venezia Giulia fino all’entrata in vigore della L.R. 30/99, giungendo addirittura ad affermare che esso sarebbe stato “con qualche decennio di anticipo un pezzo di quel famoso decentramento amministrativo oggi tanto diventato di moda e predicato pressoché da tutti”.

Ma non è esattamente così. Fino al 1999 in questa Regione, tutta ermeticamente rinchiusa nel suo orgoglio autonomistico, nessuno si era accorto che qualcosa nel mondo appena fuori da suoi confini era cambiato. Tanto per cominciare nel 1977 la fauna selvatica , che fino a quel momento era “res nullius” (ossia cosa di nessuno)  veniva definita  con  Legge dello Stato  “patrimonio indisponibile dello Stato, tutelata nell'interesse della comunità nazionale”  .

Il sistema normativo in vigore ante L. 30/99 nella nostra Regione, figlio della fine degli  anni ’60 ed oggetto delle attuali nostalgie  dei signori GIANNI ARCAN ed ELVIO DI LUCENTE , poggiava proprio sul concetto che la fauna selvatica era “cosa di nessuno”.

Il legislatore regionale del 1969, anno di emanazione della Legge Regionale che affidava alla Federazione Italiana della Caccia la gestione dell’attività venatoria in Friuli Venezia Giulia, era stato allora certamente lungimirante nella scelta di responsabilizzare i cacciatori nella conduzione di quella “cosa di nessuno”, creando una forma di autogestione con un forte ancoramento  dei cacciatori sui territori dove esercitavano la caccia.

Ma, ripeto, i tempi cambiano e sono cambiati. Convenzioni internazionali, direttive europee, leggi dello Stato sono scivolate sulle pelli impermeabili dei vari consigli, presidenti ed assessori  regionali dagli anni ’80 in poi. Così, mentre il resto d’Europa e dell’Italia prendevano atto del mutamento della situazione culturale e scoprivano che la fauna selvatica non era più semplicemente un arrosto, il Friuli Venezia Giulia  si avvitava nella sua spirale verso il basso, fino all’emanazione della cosiddetta “Legge Narduzzi”  promulgata nel 2003 ed in questi giorni messa sotto procedura di infrazione da parte della Commissione Europea.

Il punto non è , signori Gianni Arcan ed Elvio di Lucente, se il sistema gestionale attuale o quello prospettato in questi giorni rende felici o no i circa 11.000 cacciatori di questa regione. Il punto è se gli altri 1.170.000 abitanti, il buon senso nonché gli organi comunitari, considerano o no questo sistema sufficientemente garantista per la conservazione di quel “patrimonio pubblico indisponibile tutelato nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale”. Ed è evidente che in uno stato di diritto chi esercita una attività in concessione a carico di un “patrimonio indisponibile dello Stato”, non potrebbe nemmeno lontanamente aspirare a divenire il controllore di se stesso. Eppure questo paradosso in questa Regione è stato già attuato, in parte è ancora in vigore  e qualcuno aspirerebbe a rafforzarlo ancora.

La caccia, lo ribadisco e sopratutto lo ribadisce la Legge,  non è un diritto ma una concessione subordinata a regole, condizioni e costi. Costi che – a dispetto del  lamentato “aumento vertiginoso delle varie gabelle imposte ai cacciatori” di cui parlano i signori Gianni Arcan ed Elvio di Lucente - sono i più bassi tra i  grandi paesi Europei e garantiscono una possibilità di numero di specie cacciabili in cui ci supera solo la Francia.

Concludo con una riflessione, un invito, forse solo una provocazione: a livello europeo la FACE ( organismo di cui  fa parte l’Italiana Federcaccia ) ha sottoscritto un protocollo d’intesa con Birdlife International, federazione di  cui fa parte l’italiana LIPU.

Il protocollo comune tra cacciatori ed ambientalisti  spinge sugli organi europei per una maggiore  attenzione e fermezza  nell’applicazione delle direttive in materia di conservazione della fauna selvatica e degli habitat, ed è stato possibile grazie all’elevato livello culturale del dibattito che in quelle sedi si è sviluppato. Perché non adattarlo alla nostra Regione e sottoscriverlo anche qui? Io ci metto la firma ed offro la penna.

Maurizio Rozza
 

 

Di seguito, l'articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto"
Da un modello economico e trasparente si è passati a una burocrazia molto costosa
La caccia funzionava con la gestione diretta

DIBATTITO di GIANNI ARCAN e ELVIO DI LUCENTE

 

È passato poco più di un lustro da quando la miope politica locale, condizionata da beceri interessi di parte o peggio interessata a concedere qualche favore agli amici degli amici,decise di buttare all’aria la più interessante esperienza d’autentico decentramento della gestione del mondo venatorio.

Prima dell’entrata in vigore della famigerata Legge 30, infatti, nella nostra regione l’attività venatoria era gestita direttamente dalle associazioni venatorie, realizzando con qualche decennio di anticipo un pezzo di quel famoso decentramento amministrativo oggi tanto diventato di moda e predicato pressoché da tutti. L’esperienza della gestione diretta dell’attività venatoria, costruita sostanzialmente sul volontariato e sul buon senso dei cittadini-cacciatori ancorché coordinati e coadiuvati da diverse autorevoli pubbliche figure professionali, è stata per molto tempo assunta a esempio da tutto l’ambiente venatorio nazionale. Ma come sovente succede in questo strano paese d’artisti e poeti, è proprio quando le cose funzionano che qualcuno pensa bene di cambiarle. Ed è proprio ciò che è successo nel nostro Friuli.

Si è così passati da una gestione diretta, efficace, trasparente e soprattutto economica perché fondata sul volontariato, a una gestione burocratica, maledettamente costosa sia per i cacciatori che per i contribuenti e senza alcun riscontro in termini di maggior efficacia gestionale. La riforma della caccia varata per il nuovo millennio ha sicuramente avuto il merito di aggiungere qualche sedia in Regione e in Provincia, ma questo ha comportato un aumento vertiginoso delle varie "gabelle" imposte ai cacciatori, che non sempre sono benestanti.

Risultato: una folta schiera di cacciatori pensionati o modesti salariati, quasi sempre dediti a quell’unica autentica passione, sono stati letteralmente costretti ad appendere lo schioppo al fatidico chiodo perché diventata troppo esosa. Se questo fosse vero, dovremmo tutti porci una domanda: ma per quale motivo è stata abbandonata l’idea della gestione diretta della caccia? Per quale motivo si è voluto a tutti i costi chiudere il rimpianto "Organo gestore riserve" che costava poco o niente alla collettività e gestiva l’attività venatoria con un’efficacia unanimemente riconosciuta soprattutto grazie alla disponibilità e competenza di cacciatori e direttori di riserve che avevano il solo fine di gestire al meglio la loro passione? Perché mai si è voluto mortificare la figura del direttore di riserva a mero esecutore di decisioni spesso incomprensibili e quasi mai con loro condivise? Perché mai si è voluto abbandonare un sistema di gestione che garantiva pari opportunità a tutti i cacciatori e soprattutto uniformità di gestione sul territorio?

Al tempo del rimpianto Organo gestore riserve, nessuna commissione regolamenti avrebbe mai ratificato la pretesa di considerare "nocivo" una specie come il cinghiale in un determinato territorio e nel contempo considerarlo invece risorsa da tutelare e incrementare pochi metri più in là. In quel tempo nessuno avrebbe mai pensato di autorizzare lo sterminio scientifico di quella specie, e tanto meno destinandone le spoglie al "carnaio".

Ma tant’è!

Ma i cacciatori, la maggioranza dei cacciatori come la pensano? Chi scrive ha provato a effettuare un modesto sondaggio nell’ambito di un ristretto, ma rappresentativo campione fra tutti gli strati culturali e sociali del mondo venatorio, il cui esito conferma un grande rimpianto per i tempi in cui la gestione venatoria era affidata al vecchio caro Organo gestore riserve.

Chi pensa il contrario, provi a dimostrarlo... magari organizzando un vero referendum fra tutti i cacciatori, e perché no, prima di varare la nuova riforma annunciata in questi giorni.

 

Ed infine, una nota.

 

La L.R. 13/69 vedeva la luce in un periodo in cui la caccia nazionale era ridotta allo sfascio, stravolta da una "democrazia" che meglio si identificava "anarchia" e "distruzione", rese possibili dalla normativa nazionale, dalle aperture differenziate, dalle invasioni incontrollabili. I più anziani ricorderanno bene gli eccessi imputati ai forestieri, i danni prodotti.

Allo stato di cose i "padri della caccia regionale" pensarono ovviare con una normativa protezionista che ricalcasse lo spirito ma soprattutto gli effetti della "caccia riservistica centroeuropea" da noi sopravvissuta nelle residue province orientali, prese ad esempio. Riservata la caccia, per un processo causa-effetto, sarebbero invalsi i "riservisti, gestori protezionisti".

Le cose non si sono evolute nella direzione auspicata. "Impresari di partito", beninteso, d'ogni partito politico, si sono accalcati a reperire preferenze tra i cacciatori, si sono insediati ai loro vertici, hanno sfruttato il consorzio politico e forzato le istituzioni, svuotando progressivamente la normativa d'ogni senso originale. Pur se gli stessi personaggi in realtà, ben poco ne abbiano ricavato.

Nel frattempo, sempre più consistentemente, prendevano corpo movimenti naturalistici, talora protezionisti e ambientalisti, suscettibili di rodere la base elettorale. Veniva quindi avviata la campagna antinaturalistica, perfettamente contraria ai principi di salvaguardia del territorio e della fauna che i cacciatori, TUTTI, pure propugnano e ambiscono.

L'attuale disfacimento, il mancato acculturamento, l'ignobile parodia di gestione vanno imputati ai cennati "gestori di voti".

Con l'avvento della L.R. 30/99 succede il cataclisma. Gli "impresari di partito" perdono le "basi di lancio" e la modesta "greppia" ma peggio, gli viene richiesto inaspettatamente di aggiornare le loro nozioni tecniche, mettendosi al passo con i tempi. Nozioni che nel migliore dei casi, son vecchie di trent'anni.

Nel loro concetto, despoti fin ora incontrollabili, è inammissibile essere valutati da accademici tecnici! Che figura ci fanno con la base elettiva? I cacciatori vanno mobilitati. Meglio, per la gola (friulanamente, per la tasca). Meglio, se appaiono in buonafede.

Che poi il loro "cavallo di battaglia" smascheri l'oscuro (e rimosso) mentore, che cale?

Vedi Maurizio, probabilmente incontrandoci con Gianni ed Elvio, scopriremmo che sono brave persone, affidatesi per troppo tempo a chi gliela rigirava come faceva comodo. Come succede ogni giorno in "politica", economica o meno.

Come sembra non succedere all'Arcicaccia nazionale, associazione di poveri pensionati e lavoratori a minireddito, propugnatrice di gestione faunistica anzichè umana.

 

Livio Penco

Per la Caccia!